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EDITORIALE
L'esigenza di una nuova normativa che faccia chiarezza e garantisca la certezza del diritto
Che occorra tornare sull'affido condiviso, e che occorra farlo bene ed in tempi brevi, è ormai un fatto acclarato.
Lo chiede una parte sempre crescente della società, ed in senso trasversale (uomini e donne, padri e madri e...figli); lo chiede, di riflesso, la politica (salvo rare eccezioni); lo impone la giurisprudenza, nel senso che con l'entrata in vigore della L. n. 54/2006, si è creato un contrasto normativo (e per certi versi anche un vuoto) con alcune norme del codice civile, che solo l'intervento della dottrina e delle sentenze sia di merito che di legittimità hanno cercato di colmare.
Ma, naturalmente, questo non può bastare.
Occorre una legge, una nuova legge che, anche sulla scorta dell'esperienza accumulata in questi anni, tra dato normativo ed applicazione processuale, faccia chiarezza e torni a garantire la certezza del diritto.
Il problema è vasto, a cominciare da quello riguardante la potestà genitoriale sui figli naturali.
Fino all'entrata in vigore della legge sul c.d. affido condiviso, valeva quanto affermato nell'art. 317 c.c., secondo cui questa era esercitata dal genitore convivente.
Con la L. n. 54/2006, invece, si è posta la problematica (che in realtà si doveva porre ben prima ma, si sa, il nostro Paese è in ritardo cronico sulle innovazioni legislative di maggior rilievo) di come poter conciliare il nuovo istituto dell'"affido condiviso" (che, secondo il dettato dell'art. 4, co.2 della citata legge,si applica anche "ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati"), e del lapidario principio con esso sancito (quello della bigenitorialità), con la succitata disposizione codicistica.
Il nuovo art. 155, comma 3, c.c. – così come sostituito dall’articolo 1, comma 1, della Legge 8 febbraio 2006, n. 54 – recita infatti che “la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori” in caso di separazione personale fra loro: come, dunque, conciliarlo con l’ art. 317-bis c.c.?
Sul punto, inevitabilmente, si sono cominciate ad esprimere sia la dottrina che la Cassazione (ex plurimis, si veda la Sentenza n. 10265/2011; ma anche la giurisprudenza di merito – tra tante, Giudice tutelare di Palestrina, 18 settembre 2006, in Riv. notar., 2007, p. 517, e cfr. Trib. Roma, 3 maggio 2010, n. 9656, in Guida al dir., 30, 2010, p. 83-) le quali hanno univocamente concluso a favore dell’abrogazione tacita dell’art. 317-bis c.c. nella parte in cui attribuisce la potestà genitoriale sui figli naturali al genitore con essi convivente; e ciò, proprio sulla scorta di quanto affermato nell’art. 4, co.2 della Legge del 2006, più sopra richiamato, che ha inteso disciplinare tutti i rapporti tra genitori e figli naturali, senza limitazione alcuna: per cui, non può non convenirsi che, stante l’esigenza costituzionale di una disciplina sostanzialmente omogenea fra figli legittimi e figli naturali, l’art. 317-bis c.c., nella parte relativa, sia stato tacitamente abrogato dalla stessa legge n. 54/2006, risultando con la stessa totalmente incompatibile.
E d'altronde, anche il nostro Legislatore si è accorto di questa assurda, quanto vetusta, norma discriminatoria, al punto che sono in dirittura d'arrivo alcuni disegni di legge tendenti ad equiparare sotto tutti i punti di vista i figli naturali a quelli legittimi.
Ma, parimenti, occorre legiferare anche su concetti basilari come “mantenimento diretto” e “doppio domicilio”, affinando, per alcuni versi, concetti, o intenzioni, già presenti "in nuce" nella legge del 2006.
E riflettere su alcuni dati di fatto: alcuni critici (tralascio volutamente i meri "detrattori" a prescindere) sostengono che l'affido condiviso non si possa applicare a prescindere.
Ebbene, proviamo a cambiare ottica e a sostenere che il condiviso debba, invece, essere la regola generale, da applicare "ex lege", con l’unica eccezione della inidoneità di uno dei due genitori, risalenti esclusivamente a circostanze a lui attribuibili e non a caratteristiche mutue (conflittualità, distanza ecc)., che possano costituire motivo di pregiudizio per il figlio.
E, così ragionando, veniamo ad un altro dato: la scarsa applicazione "de facto" dell'affido condiviso, specie sotto il profilo della equilibrata presenza fisica del minore presso ciascun genitore.
E' fatto notorio che, nella prassi giurisprudenziale, il figlio venga posto a vivere in misura largamente prevalente presso un genitore definito "collocatario", e che si imponga all'altro (genitore) dei semplici, quanto riduttivi (oltre che “contra legem”, è bene ribadirlo) “diritti di visita”, con l’aggiunta di un mantenimento (non diretto, ma da versare all’altro genitore).
Clichè, questo, che non è quello voluto dal dato normativo ma che deriva da una scarsa immedesimazione del giudice nelle singole fattispecie che gli vengono sottoposte.
Il concetto di "iudex peritus peritorum" ha senso nel momento in cui il magistrato, chiamato a decidere, applichi il dato normativo al caso concreto (in questo, d'altronde, consiste lo “ius dicere”; e la "perizia" del giudice si riferisce, o così dovrebbe fare, alla sua saggezza ed esperienza).
E nel far ciò non dovrebbe, il magistrato, trascurare le basi scientifiche (di natura psicologica, in particolare) su cui, anche, e soprattutto, si fonda il delicato settore del diritto di famiglia e dei minori.
L’evidenza è che, fin’ora, invece, è accaduto, almeno nella maggior parte dei casi, proprio questo.
Altrimenti, non si spiega perché ci siano tanti “genitori collocatari” (per lo più madri), nonostante il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (chi più “peritus” di esso, nel campo dei bambini?) si sia espresso in maniera del tutto favorevole all’affido condiviso (si veda il parere espresso nell’audizione alla Commissione Giustizia dell’8 Novembre 2011): frequentazione equilibrata, doppio domicilio (a discapito di chi parla di bambini usati come “pacchi postali”), cura ed accadimento ricevuti da entrambi i genitori, nella quotidianità, i principi che dovrebbero essere promossi e sviluppati per favorire la salute dei minori, figli di genitori separati.
Ed allora?
Allora, dovrebbero essere coerenti i critici (e qui ci metto anche i detrattori), allorquando si scagliano contro i progetti di riforma in discussione in questi mesi al Parlamento (che mirano proprio a sviluppare i succitati punti) i quali, ad esempio, nel criticare l’attendibilità scientifica delle tesi di chi vorrebbe introdurre, nei nuovi testi normativi, la c.d. Pas (Parental Alienation Syndrome), ne contestano la validità.
Ebbene, se da un lato, per rispondere a tale assunto, mi permetto di usare le stesse parole usate dal Professor Maglietta (che, spero, mi perdonerà), dicendo che “(...) Nello scrivere un testo di legge si ha prima di tutto la necessità di farsi capire, visto che la legge dovrà essere rispettata da tutti i cittadini, e non solo da pochi addetti ai lavori. Si sono esemplificati gli effetti della manipolazione utilizzando il termine "Sindrome di alienazione genitoriale", perché questo è il modo in cui, propriamente o impropriamente, viene comunemente indicata quella certa classe di fenomeni ed è quindi più facile farsi capire. Ma si può togliere il termine senza che la sostanza cambi di una virgola. Infatti, se si segue una linea di ragionamento ispirata al buonsenso e si evitano strumentali forzature di evidente base ideologica, non ci vuole molto a comprendere il pensiero del legislatore” (tratto da I negazionisti della PAS. ´´Egregio dott. Mazzeo.....´´ - di Marino Maglietta), dall’altro aggiungo che, quand’anche fosse non provata la suddetta PAS, bisognerebbe, però, ragionando “a contrario”, riconoscere piena validità scientifica al parere formulato dal Consiglio Nazionale degli Psicologi (sopra richiamato) e, conseguentemente, non contrastare più, ora con una scusa, ora con un’altra, la piena ed effettiva applicazione dell’affido condiviso.
Avv. Marco Valerio Verni
- 27 Settembre 2012
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